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23 maggio 2015 22:26 — 0 Commenti

Muoiono 1.350 montanari. Riflessioni sulla #grandeguerra e sull’oblio verso questi morti

Prima Guerra mondiale

 

Immaginate di vedere schiantarsi sulle alpi tra Italia e Austria un boeing con 93 vettesi, 134 baisani, 30 busanesi, 56 collagnesi, 85 ramisetani, 120 cianesi, 171 carpinetani, 57 vianesi, 149 castelnovesi, 182 villaminozesi,  128 casinesi, 36 ligonchiesi, 109 toanesi. In totale fa 1350 persone uccise. Uomini per lo più tra i 17 e i 40 anni. Tre volte tanto furono quelle mutilate. No, forse un boeing non potrebbe bastare. Occorrerebbe una tradotta o, forse, un barcone di quelli della disperazione. E vederli sparire per sempre, in fondo al mare della memoria.

A dire del vero di questi montanari morti durante la prima guerra mondiale restano i fogli matricolari – per saperne di più consultare gli Albi della Memoria di Istoreco – , qualche croce di ferro nelle case o nei mercatini della città, i platani messi a dimora negli anni venti ai giardini del Parco di Vetto che crescendo hanno inglobato le targhe di ferro con i nomi di ogni caduto, uno per ogni albero, quindi cippi quasi in ogni comune o qualche salma rimpatriata. Purtroppo resta anche un grande senso di oblio.

La ricorrenza dei cento anni dall’entrata italiana nella prima guerra mondiale non è una festa, come qualche giornalista erroneamente la definisce sui media nazionali. Forse è un lutto che si rinnova, come ricorda un lettore che ha listato di nero il tricolore. Forse è la ricorrenza del sacrificio di tanti eroi, come venivano ricordati con un po’ di sana retorica passata indenne attraverso i libri delle elementari di quattro generazioni. Forse è l’epopea di un popolo che, ancor prima dell’avvento della televisione, provava a scoprirsi unito contro l’invasore austriaco, faticando nel capire i dialetti dei compagni commilitoni. Forse è una immane tragedia che pare non importare più. Interessa poco a giovani e meno giovani. Un anniversario troppo in là nel tempo. Troppo poco dibattuto dai media.

Ma chi di anni ne ha almeno quaranta qualche reduce della Grande Guerra o i suoi familiari ha fatto a tempo a conoscerlo e a coglierne qualche ricordo.  Come il ricordo di Umberto di Rodogno che si rifiutava di rimanere in paese quando, col burcaij, si uccideva il maiale con indicibili sofferenze simili a quelle che aveva troppo spesso sentito negli assalti a baionetta. Come i ricordi raccolti dalla nostra collaboratrice Giovanna Caroli, dal mensile Tuttomontagna o in qualche libro. Come quello del fatto che, dall’Appennino, si sentivano troneggiare i cannoni sulla linea dell’Isonzo o del Piave. Cannoni forse troppo in là nell’audacia per la politica scolastica del post liberazione che per molti anni finì per velare di silenzio la storia di una guerra (la prima) quasi vittoriosa, di cui si era “impadronita” la retorica del fascismo.

Eppure la mejo zoventù di montanari strappati a campi, greggi  (incredibile il tributo di vite di un luogo tipicamente pastorale, come Villa Minozzo, il comune più segnato dai caduti) o botteghe artigiane si impegnò con dedizione su vette e confini che non conosceva, morendo ancor prima sotto le slavine, in prigionia o in quel macellificio infernale delle guerra di trincea, fatta di baionette, gas, sangue, urla, comandi spietati e filo spinato avvinghiato a vite che contavano meno di una pallottola. A casa restavano quelle coraggiosissime madri che i soldati invocavano in punto di morte o prima degli assalti, cui toccava condurre le stalle assieme a mogli che dovevano crescere figli che nemmeno conobbero i padri.

Nei nomi di quei caduti oggi possiamo leggere le speranze dei genitori dell’Appennino di due secoli fa che li battezzarono come Adeodato, Bonfiglio, Florindo…, la religiosità o le aspirazioni regali nei nomi di santi o re dell’epoca Francesco, Giuseppe, Guiglielmo…, la sonorità di scelte per nomi ora inusuali come Ovindo, Delisio, Florindo, Ancesto,…

Oggi, 24 maggio 2015, li ricordiamo tutti insieme con un pensiero, una preghiera, un semplice commento a ricordo del loro doloroso tributo. Sia chi perì, sia chi rimase ferito nell’anima ancor prima che nel corpo. Oltre la sciagura dell’avvento del nazifascismo, furono i nostri bisnonni tornati proprio da quella immane tragedia a gettare i primi semi di una nuova generazione votata alla pace. Per questo ogni cittadino montanaro, italiano ed europeo deve fare tesoro delle proprie dolorose radici. Solo così non accadrà mai più.

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Gabriele Arlotti ha scritto 2964 articoli per Studio Arlotti

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